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L’editoriale del direttore
Attualità – Premesso a caratteri cubitali che siamo favorevoli all’iniziativa degli aiuti umanitari a Gaza, dobbiamo, come sempre, esercitare la massima obiettività nel divulgare analisi ed informazioni. L’azione di cui parliamo — 41 navi intente a creare un corridoio umanitario — è stata presentata come un gesto nobile, volto a portare soccorso in una zona fortemente provata dall’emergenza.
La domanda elementare, però, non può essere elusa: chi ha investito denaro per questa operazione? Chi ha sostenuto economicamente le 41 navi sapendo che, in seguito, tali impegni avrebbero potuto incontrare l’intervento o l’ingerenza di autorità statali? È una domanda legittima nel quadro di una mobilitazione spesso auto-organizzata da attori non statali, ma è anche una domanda cruciale per la trasparenza e la responsabilità.

Dal sito ufficiale dell’organizzazione Global Sumund Flottila, si legge una dichiarazione forte: “Siamo indipendenti, internazionali e non affiliati ad alcun governo o partito politico. La nostra fedeltà è rivolta alla giustizia, alla libertà e alla sacralità della vita umana.” Se questa autoreferenzialità di indipendenza è tale da rendere credibile l’impegno, resta però l’obbligo giornalistico di chiedere chi, in realtà, finanzia queste operazioni e con quali interessi. L’indice di trasparenza non è una scelta opzionale: è la base stessa della fiducia pubblica in un’iniziativa che promette soccorso ai più vulnerabili.
Chiarire chi finanzia non è una questione di sospetto sterile, ma di verifica delle finalità e delle conseguenze politiche ed economiche. Quando la bilancia dell’iniziativa è pesante come una spedizione marittima di 41 navi, è lecito chiedere:
– Quali fonti di finanziamento hanno sostenuto l’operazione? fondi privati, ONG internazionali, contributi statali o donazioni anonime?
– Qual è la destinazione precisa dei fondi: copertura logistica, lasciare spazio a forniture mediche, pagare equipaggi, assicurazioni, spese di viaggio e coordinamento?
– Vi è trasparenza sui bilanci, sui contratti e sugli accordi logistici con i porti di partenza e di arrivo, nonché sugli eventuali accordi con governi o autorità di transito?
– Qual è l’interesse, reale o percepito, di chi finanzia, e quale impatto potrebbe avere sull’equilibrio umanitario, sulla percezione pubblica e sulle dinamiche geopolitiche?
È lecito rimanere favorevoli all’obiettivo umanitario e al bisogno di soccorso, ma non è lecito rinunciare a domande che servono a proteggere la legittimità delle azioni umanitarie stesse. L’indipendenza proclamata dall’organizzazione non può trasformarsi in un manto di impunità per l’opacità finanziaria. In democrazia e in giornalismo, la fiducia si costruisce sulla verifica: chi paga, perché paga, e con quali condizioni o eventuali vincoli.

La sfida per i media è offrire una copertura che integri il racconto umano della crisi con una chiarezza metodologica sulle fonti e sugli interessi. Non si tratta di demonizzare chi aiuta o di attribuire malintesi senza prove: si tratta di chiedere e ottenere la massima trasparenza possibile. Solo così la narrazione dell’aiuto diventa una storia non solo di solidarietà, ma anche di responsabilità.
Siamo favorevoli all’idea di fornire aiuti umanitari a Gaza. Tuttavia, l’unico interrogativo necessario e permanente resta questo: chi ha finanziato queste e altre operazioni della flotilla e, soprattutto, con quali fini? Chiarezza sulle fonti significa diritto dell’opinione pubblica a valutare l’impatto reale di tali iniziative, senza cadere in semplificazioni o in teoremi di complotto. E in nome della dignità umana di cui parliamo, la verifica non è solo dovere dell’informazione, ma rispetto stesso per le persone che questi aiuti dovrebbero servire.







