L’addio al “Conte”: un’icona di eleganza, amicizia e umanità

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Di Prof. Mario Costa 
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Si chiamava Ernesto Panaccione, ma per i più, in città come nella frazione di Sant’Angelo, era il “Conte” dei Panaccioni. Il funerale si è celebrato domenica pomeriggio nella chiesa della popolosa frazione. Si era spento all’alba del giorno prima nell’hospice della clinica Sant’Anna.

Era molto conosciuto, ma la notizia della sua dipartita a tanti non è giunta. Riportiamo, di seguito, il necrologio letto in chiesa dal prof. Mario Costa, uno dei suoi amici di vecchia data.

In ricordo di un amico: Ernesto Panaccione, il “Conte”.

“Con Ernesto Panaccione, per me, come per quasi tutti gli altri, parenti compresi, affettuosamente solo il “Conte”, se ne va un amico. A Lui, persona per molti versi pur così diversa da me, anche nelle scelte di vita, mi ha legato una lunga, sincera amicizia, mai affievolita dal corso del tempo né da un allentamento della frequentazione. Dopo il Covid, infatti, egli aveva prudentemente scelto di vivere un po’appartato, timoroso di un fatale contagio al suo fisico debilitato dalla crudele patologia che, tra alti e bassi, ha affrontato con dignità e signorile riservatezza per sette anni, lottando fino all’ultimo istante. Si è arreso solo quando ha capito come stavano le cose e che non aveva più speranze.

Ci aveva tenuto a mostrarsi sempre forte, sicuro di sé, solido. Eppure le ultime cose che conservo di lui, sofferente in un letto della clinica Sant’Anna, sono quello sguardo, che poteva dirsi “pieno di lacrime”, e un triste, affettuoso addio appena accennato con la mano, consapevole della morte incombente e di questo mondo che doveva lasciare.

Essendone stato testimone, un grazie sento il dovere di rivolgerlo pubblicamente, anche a nome dei familiari, in questa occasione, al personale tutto dell’hospice della clinica per la professionalità, le attenzioni, l’amore con cui lo hanno accompagnato nell’ultimo tratto della sua vita. “Qui sto proprio bene”, mi ripeteva ogni volta che lo andavo a trovare o lo sentivo per telefono.

Il necrologio per il Conte non è di quelli facili. Ma è di quelli doverosi per dire degli aspetti buoni di lui, passati in sottordine nel giudizio critico di tanti, e per dire delle qualità sue, che non erano poche; di quello che lui è stato per gli amici, per tanti di noi; delle tante cose positive di cui era portatore, che facevano di lui una persona piacevole, simpatica. Una simpatia che, accompagnata da intelligente ironia e dall’immancabile ricorso allo sfottò, sapeva trasmettere nel suo dire, nel suo fare, nel suo modo brillante e accattivante di porsi rispetto all’altro. All’occorrenza sapeva usare l’italiano con prosa fluida, precisa, di persona intelligente, padrona di ciò che sosteneva. Ma amava tanto il dialetto che è la lingua degli affetti. Lo amava molto non solo perché per essere pienamente efficaci alcune cose vanno dette solo in dialetto. E molte delle sue simpatiche citazioni affondavano le radici in quel nostro mondo contadino a lui tanto caro. Ma lo amava molto perché è confidenziale ed intimo, è familiare, perché – come sappiamo – il dialetto di una cosa esprime il sentimento mentre la lingua di quella stessa cosa esprime il concetto.

Il “Conte” sapeva stare con tutti, con i borghesi e con i popolani. Rampollo di una buona famiglia, di cui, occorre dire, era il riferimento certo, il factotum per tutti gli adempimenti burocratici (che non sono mai pochi), per la preziosa gestione e il necessario supporto agli anziani di casa.

Si divertiva, talvolta, con il suo fare da dissacratore, a scimmiottare certi modi di essere dei cosiddetti “signori”. Ma era ricercato anche in quell’ambiente, un animatore unico. Però amava stare soprattutto con le persone del ceto popolare con le quali il suo sentire lo faceva stare più a suo agio, con le quali stava bene; quelle persone che lo gratificavano chiamandolo con affettuoso rispetto “Conte”.

Era uomo dai gusti raffinati. La frequentazione del liceo artistico, a quel tempo della sua giovinezza a Frosinone, aveva lasciato in lui i segni. Amava le cose belle, anche se non apprezzate dagli altri che – come diceva lui – quelli non erano in grado di capire. Spiccava nella sua eleganza, si distingueva nel suo modo di fare. Gli piaceva essere guardato, ammirato, stare al centro dell’attenzione. Brillante nel suo modo di fare. Era divertente stare in sua compagnia. Aveva una particolare attrazione per le persone di un certo livello culturale con cui sapeva rapportarsi. Sapeva riconoscerne la superiorità. Persona intelligente il “Conte”, non era un superficiale a differenza di come poteva apparire per via del suo modo scanzonato. Non sopportava gli arrivisti, quelli che si davano un tono senza averne i requisiti, o quelli che esercitavano un ruolo pubblico senza particolari meriti. Ammirava invece le persone che “sapevano”, anche se, con quelli con cui c’era confidenza, si divertiva a punzecchiarli chiamandoli “questi intellettuali”. Con essi amava stare ma, soprattutto, con essi sapeva stare, distinguendo quando era il momento di tacere e di ascoltare.

Era raffinato il Conte, non solo nell’abbigliamento, nei modi, lo era anche nei gusti, pure in quelli culinari. Amava circondarsi delle cose belle. Quella formazione del liceo artistico se l’era portata con sé e se n’è servito sempre nei momenti importanti, in quelli che contano. Nutriva anche sentimenti buoni. Sapeva voler bene anche se non lo avrebbe mai detto al beneficiario. Ma l’altro lo coglieva in alcuni particolari, in tante piccole cose.

Ecco: dovevo richiamare le cose belle di lui. Credo di non avere esagerato. Chi lo ha conosciuto davvero sa che non erano poche.

Mentre scrivevo il necrologio per te, caro “Conte”, molti di quei momenti, di quelle cose belle, mi sono venute alla mente e mi hanno commosso. So che ogni tanto torneranno di nuovo e tornerò a commuovermi ancora. Così come capiterà a tanti che sono venuti qui al tuo funerale a renderti omaggio e a darti l’ultimo saluto. Grazie per i bei ricordi; grazie per l’amicizia e la stima con le quali mi hai gratificato.

Un’ultima cosa, una considerazione sulla morte, della quale non abbiamo mai parlato, un qualcosa che abbiamo opportunamente scansato mentre purtroppo subdolamente si avvicinava. Nelle mie venute in clinica abbiamo sempre optato, come oggetto di conversazione, per argomenti frivoli, che ti tenessero su. Ora lo posso fare senza il timore di turbarti.

La morte ha un interesse per tutti e non è mai buona. Ma quando ti lascia il tempo di dare tutto, di essere tutto te stesso, la morte non è cattiva: è solo la morte. Certo poteva aspettare un altro po’, farti godere ancora dei tanti piccoli piaceri della vita che sapevi cogliere e gustare con invidiabile intensità, “Sì, ancora un po’” avrai detto in silenzio tante volte. Ma questo non lo decidiamo noi.

Da ultimo. Non hai viaggiato molto nella tua vita, caro “Conte”. Uno solo importante del quale parlavi spesso: un viaggio in America per il matrimonio di una parente.  Da buon “contadino” (mi riferisco non al significato letterale della parola ma alla qualifica che di autoattribuivi quando a te, elegantissimo come sempre, qualcuno di quelli che non sanno mai farsi gli affari propri, inopportunamente, chiedeva quale fosse il tuo mestiere) da buon improbabile contadino – dicevo – quasi mai ti allontanavi per un viaggio dalla tua terra, dai Panaccioni, dai tuoi cari. Ora in questo tuo ultimo viaggio, ti accompagnino il nostro affetto e il nostro abbraccio, e lo rendano meno faticoso. Addio, “Conte”.
Mario Costa 

                                                                  

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