Addio a Peppino Grossi: un uomo di scuola, una città che lo perde

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Di Prof. Mario Costa 

Per Peppino, amico carissimo

Quando si è chiamati a parlare in occasioni tristi come questa di oggi per il necrologio ad un amico, persona a noi assai cara, non è facile tenersi al riparo da qualche esagerazione, oltre che dalla retorica.

Dico subito questo perché la retorica, al preside Grossi (Peppino per i suoi cari, per gli amici e per tantissimi di questa città), procurava una sorta di orticaria, se non proprio l’effetto del fumo negli occhi. Quando mi è capitato di sostenere che, invece, in alcune occasioni, in determinati contesti, di un po’ di retorica non si può fare a meno, in maniera decisa raccomandava di scansarla il più possibile. Nel dire di Lui cercherò quindi di tenere presente questo suo suggerimento, di rispettare questa sua volontà. In coerenza, peraltro, anche con la persona misurata qual lui era.

Credo comunque di non esagerare nel dire che con la morte di Peppino Grossi la sua, la nostra Cassino, rimane orfana di uno dei suoi figli migliori, di uno dei suoi padri nobili. Con Lui se ne va una persona di alto profilo, culturale ed umano, che ha dato lustro a questa città. A lui mi ha legato una sincera amicizia diventata sempre più forte nel corso del tempo, che mi ha arricchito non solo culturalmente, della quale mi son sentito onorato. Ma qui oggi penso di parlare a nome di tanti concittadini ed amici che così numerosi sono venuti a rendergli un affettuoso omaggio e a stringersi alla sua famiglia. E’un dolore che – appena si è sparsa la notizia della sua morte – è diventato un sentimento popolare.

Ma non c’è da meravigliarsi: Peppino era popolare in questa città da lui amata profondamente, con la quale aveva un legame di sangue. Mai che gli passasse per la testa di lasciare ogni tanto, anche per una mezza giornata, il tepore di quel guscio che Cassino era per lui. Di qui erano i suoi, qui era nato, qui ha trascorso la sua vita da uomo di Scuola (con la lettera maiuscola). Uomo di scuola, appunto, quella di qualità. Aveva cominciato ad insegnare da giovanissimo alla media, quindi al liceo scientifico Storia e Filosofia, a generazioni di giovani, poi, vincitore di concorso, preside in una scuola superiore della Toscana, quindi al Magistrale di Sora, per finire la sua carriera al liceo classico “Carducci”.

 La stima di cui godeva era il frutto di una signorile educazione (di eredità e di tradizione familiare), che lo portava a rapportarsi spontaneamente con il prossimo, senza distinzione di ceto sociale, con garbo e rispetto sincero. Ed era il frutto (la stima di cui godeva) di anni di studio permanente durante i quali aveva messo la volontà al servizio di una mente lucidissima, di una intelligenza vivissima, tali rimaste sino al maledetto arrivo dell’ictus all’alba di un giorno di aprile della primavera scorsa.

Sì, l’intelligenza, che è poi la capacità di capire il che cos’è in ogni situazione. E Peppino aveva, tra le altre qualità, quella del ragionamento logico e il dono della simpatia che sapeva trasmettere nel suo dire, nel suo fare, nel suo modo brillante ed accattivante di porsi rispetto all’altro. Sapeva usare l’Italiano con prosa fluida, precisa, limpida, di persona intelligente, padrona di ciò che sosteneva. Memorabili e assai letti i suoi scritti, raccolti in due testi dal titolo “Scampoli” l’uno, “Cassino, ad Agosto, non è brutta” l’altro, editi da Ciolfi, rispettivamente nel 2001 il primo, nel 2010 il secondo. Quest’ultima pubblicazione raccoglieva parte degli scritti della sua rubrica del nostro free press settimanale “Cassino7” (15 mila copie settimanali). La sua era la firma di punta, suoi gli articoli più letti di quella fortunata pubblicazione di cui sono stato (non so sino a che punto degnamente) il direttore editoriale negli ultimi cinque anni. Una battaglia politica e civile per l’affermazione del buon governo in questa nostra città.  

Le pagine di quella sua rubrica hanno tratteggiato in maniera impareggiabile personaggi cassinati, noti e meno noti, usi, costumi, tradizioni, “pizzicatine”, tiratine di orecchie ad esponenti politici (e non solo politici) di questa città.

Ma amava tanto anche il dialetto che è la lingua degli affetti. Lo amava molto perché è confidenziale ed intimo, è familiare, perché – come sappiamo – il dialetto, di una cosa, esprime il sentimento, mentre la Lingua di quella stessa cosa esprime il concetto. Peppino era ironico e autoironico. Amava la compagnia, lo sfottò che utilizzava con chi gli stava simpatico e verso chi voleva bene; gli piaceva scherzare, prendere e farsi prendere in giro: ma era fermo e serio nelle cose serie, leale nell’amicizia.

Peppino era rispettato per le sue qualità, certamente, ma anche per quella sua sincera modestia, patrimonio di chi non ha bisogno di sentirsi superiore a nessuno. Uno che si era fatto con lo studio serio. Uno che coltivava un sentire positivo. Era un uomo dall’animo buono, anche se la sua ricchezza umana era oscurata talvolta da una certa puntigliosità e da una riottosità alle innovazioni, soprattutto quelle tecnologiche, derivanti dal carattere della bella persona che indubbiamente era. Rigoroso nella difesa di principi e valori consolidati nel suo pensare, per lui fuori ogni discussione. Quali l’onestà, la serietà, la correttezza nella vita di ogni giorno. Un difettuccio, volendolo individuare, anche in questa occasione, lo ritroviamo nella tendenza alla lamentazione (accentuatasi soprattutto negli ultimi anni) e a spazientirsi talvolta per cosa di alcun conto. Appariva comunque tranquillo, sereno, ma in realtà la sua era natura inquieta. Portava nel viso, come scolpita nell’espressione, l’intensità con cui gioiva e pativa la vita.

Fece, in anni lontani – si era alla fine degli anni ’90 – anche un ingresso in sala Di Biasio come consigliere comunale. Vi approdò dopo la candidatura a sindaco nella coalizione di un frantumato centrosinistra. Portò il suo contributo di qualità in quell’aula, ma non era portato per quel mestiere (eppure ce ne vorrebbero tanti come lui, con la sua cultura, sensibilità e i suoi alti valori di riferimento) e dopo un paio di anni lasciò il posto al primo dei non eletti della sua lista. Fu il tenace sostenitore, ricordo, dell’intitolazione dello stadio comunale al compianto professor Gino Salveti, amico amatissimo, che – come ebbe a ricordare in vari scritti – non era mai riuscito, però, a chiamare per nome e a dargli del “tu”, come avrebbero richiesto la loro pluridecennale amicizia e i cortesi, reiterati inviti del professore.  In una lettera aperta nel decennale della morte di Salveti, Peppino scriveva: “Voi ed io siamo stati sempre sufficientemente “inattuali” e non ci siamo mai preoccupati di non essere alla moda”. In altra occasione Peppino espresse all’amico, poeta cassinate, ironico e sentimentale, la sua gratitudine per aver suscitato in lui il senso dell’umorismo, il gusto dell’ironia, “ma anche per avermi fatto capire – scriveva – che assecondare (ed anche coltivare) una nativa malinconia non è sempre soltanto un segno di debolezza”.

La malinconia, che non è sempre soltanto un segno di debolezza, negli ultimi tempi aveva però in lui lasciato il posto ad una ricorrente tristezza. La morte di Fausto Pellecchia è stata per lui un duro colpo. L’ha vissuta come il traumatico e lacerante distacco da un figlio. Ne parlava spesso e il parlarne acuiva in lui la sofferenza per la perdita di un amico dalle eccelse virtù, così caro a lui, ma anche a tanti di noi.

Sicuramente lo faceva per esorcizzarla, ma alla sua morte Peppino aveva cominciato a pensare con largo anticipo. Era il 2001, 24 anni fa, quando nella didascalia di una foto pubblicata sulla copertina di “Scampoli”, dove appare con un sorrisetto dall’espressione vagamente malinconica, ebbe a scrivere nella presentazione di sé: “Peppino Grossi vive a Cassino, dove è nato e dove spera di morire quando (lui si augura non tardi) verrà la sua ora”. 

Di anni, da allora, per fortuna ne sono passati parecchi; di morire a Cassino, è stata speranza, questa, non vana. E’stato esaudito: arrivata la sua ora dopo sofferenti ultimi mesi in un letto del San Raffaele, la morte lo ha raggiunto qui, nella sua amata città, ai piedi dell’Abbazia.

Con lui se ne va uno degli ultimi veri cassinati, un custode dell’anima autentica di quella Cassino che fu, scanzonata e triste, scherzosa e sofferente, che Peppino aveva descritto in maniera così mirabile e che amava ricordare nei suoi personaggi, noti e meno noti.

Da quando non lo si è visto più presso quella panchina di piazza Diaz dove era solito stazionare con il ristretto gruppo di amici; da quando non è arrivata più quella sua telefonata di sollecito a raggiungerlo lì, o nella bella casa di via Arigni dove ci accoglieva, immancabilmente, in giacca e cravatta, pronto      a versare il Courvoisier, cognac per noi, e, per farci compagnia, lo storico Caffé Borghetti per lui; ora che non dovremo raggiungerlo più, dovremo abituarci alla sua assenza. Ora dovremo farlo per davvero. E non sarà facile. Ci mancherà. Certo, mancherà ai suoi cari, a noi suoi amici, ma mancherà a questa città da lui così tanto amata.

Da ultimo: prendo le parole postate da un amico comune, Stefano Di Scanno: “Quando una personalità emerge con la propria cultura, riesce a creare relazioni che danno loro stesse un valore ai momenti trascorsi insieme, oltretutto rappresenta con la sua famiglia un pezzo di storia nobile della comunità a cui appartiene, e dà anche un esempio che funge da prospettiva per i più giovani, allora quella personalità diventa una persona cara da preservare e indicare anche ai propri figli”.

Tu, Peppino, sei stato tutto questo. Lo sei stato per me, ma anche per i tanti che ti hanno guardato sempre con rispetto.

Addio, Peppino, grazie di tutto. 

Mario Costa 

                                                              

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